Nella sua analisi Françoise Vergès parte dall'assunto innegabile che a partire dal XVIII secolo la storia del femminismo occidentale sia stato un fruttuoso susseguirsi di vittorie nel campo della rivendicazione dei diritti individuali delle donne. L'autrice precisa tuttavia che queste vittorie, fondate sullo cancellazione delle disparità uomo-donna, hanno sottovalutato e in certi contesti ignorato le esperienze di dominazione che esistono tra le donne stesse. A fronte di un femminismo portatore della "missione civilizzatrice" del Nord colonizzatore, Vergès mostra gli aspetti dirompenti di un posizionamento "decoloniale" in grado di opporsi a quel patriarcato profondamente connesso al sistema capitalista (a sua volta storicamente connesso allo schiavismo) e al neoliberismo. Il femminismo decoloniale è necessariamente anticapitalista e collega le disuguaglianze di genere e razziali al sistema capitalista. Secondo Vergès non ci si dovrebbe definire femministe senza interessarsi alle questioni ambientali, allo sfruttamento, alla vulnerabilità di classe e al razzismo; senza agire in modo condiviso con altri movimenti politici e sociali favorevoli alla decostruzione di questo sistema. Essere femministe decoloniali significa allora combattere contro il femminicidio ma anche per il diritto dei popoli indigeni alla terra, significa trovare delle connessioni tra le esperienze radicate in diverse parti del mondo e riscrivere le strutture in cui i nostri mondi sono pensati.
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